Manolete di Clerici
7 giugno 2022
In occasione della triste scomparsa dello scrittore Gianni Clerici, il Club Taurino Italiano vuole ricordare la sua grande passione per l'arte della Tauromachia che per l'autore del best-seller planetario "500 anni di tennis" era tale da usare il termine taurino "veronica" per descrivere le elegantissime voleè di Adriano Panatta.
Qui uno dei suoi tanti pezzi sulla corrida comparso su Repubblica e dedicato a Manolete
Manolete contro la morte la sfida dell' ultima corrida
Repubblica 28 agosto 2007
Gianni Clerici
La Plaza de toros di Linares può contenere diecimilacinquecento spettatori. Ce n' erano altrettanti fuori dall' arena, il 28 agosto del 1947, per una corrida che vedeva riuniti i più grandi matadores dei tempi - forse di tutti i tempi -: Gitanillo de Triana, il ventenne Luis Miguel Dominguin, e sovrattutti Manuel Rodriguez Sànchez, universalmente conosciuto con il soprannome di Manolete. Lo spettacolo - ma forse è meglio dire la cerimonia - ebbe inizio alle cinque e mezza de la tarde, del pomeriggio. I tori sono all' altezza dei toreri, provengono dal famoso allevamento Miura.
Entra nell' arena per primo Gitanillo, impegnatissimo a non sfigurare al confronto con il campione dei tempi, Manolete, e col miglior giovane emergente, Dominguin. Torea al suo meglio, e uccide tra gli applausi. Segue Manolete, con il suo inimitabile stile che qualcuno ha definito astratto, e, dopo "faene" punteggiate da sospiri collettivi d' ammirazione, fatica ad uccidere, pur rischiando per l' assoluto coraggio e la contiguità col toro.
In tribuna, più d' uno ricorda che, dopo un anno sabbatico causa lo sfinimento, il 1946, il Genio è stato ferito, e gravemente, soltanto trentadue giorni prima, a Madrid, e ha accettato di recarsi a Linares contro i suggerimenti generali, primo fra tutti del suo agente Camarà. Il terzo toro, davvero "bravo", collabora nell'offrire ad un ammirevole Dominguin il premio delle sue due orecchie mozzate. Con il quarto, una bestia di più di cinquecento chili, Gitanillo non è certo brillante.
Il quinto Miura, Islero, una bestia di cinque anni, esce e carica immediatamente, su due rotaie. Sembra un partner ideale per Manolete, che ne controlla i movimenti con tre "faene" d' assaggio, e lo indirizza verso i "picadores", che gli infliggono, su richiesta del matador, non più di tre picche. E' nuovamente Manolete a torearlo, con una serie di passaggi bassi, e di "derechazos". Questa "faena", che spinge il pubblico al delirio, continua interminabile, con Islero sempre più vicino a Manolete, sino a sfiorarlo e, addirittura, a stracciargli il corpetto del "traje de luz" con il corno sinistro. Nell' apparenza indifferente, Manolete fa seguire due passaggi alti, e offre due "manoletine", una figura di suo conio. E, probabilmente esaltato, giunge a inginocchiarsi, in una rischiosissima "faena".
Mentre il pubblico delira, uno dei suoi "peones", il più fedele, gli offrirà per ben due volte la spada, che Manolete rifiuta. Ed è dal pubblico, consapevole del rischio, che si leva un coro, una preghiera di finirla. Manolete ora conduce Islero di fronte alla porta d' uscita del "toril", la stalla: luogo pericoloso se uno ce n' è nell' arena. Uno dei "banderilleros", Chino, non cessa di gridare «Toglilo di là, cambiagli posto». Manolete non sembra sentirlo.
Finalmente si prepara a uccidere, dritto, di profilo, lentissimo, il braccio sinistro che indirizza il toro verso la porta del "toril". Spinge la spada nel corpo del toro. Nello stesso istante, il corno di Islero buca la coscia di Manolete, lo aggancia e lo solleva, facendolo volteggiare sopra il muso. Lo proietta al suolo, e, nel tentare di risollevarsi, Manolete sviene. Gli altri toreri si precipitano, sommergono di cappe Islero che vorrebbe accanirsi su chi lo ha ferito, afferrano Manolete per portarlo in salvo. Nell' emozione, nella fretta, lo trasportano nella direzione d' uscita sbagliata, contraria a quella che conduce all' infermeria. Perdono tempo prezioso, mentre dalla ferita di Manolete escono fiotti di sangue, a macchiare la sabbia.
Nella modesta infermeria, il dottor Garrido si china sullo squarcio, dopo che l' impresario Camarà l' ha messo a nudo tranciando l' abito a gran colpi di forbice. I muscoli sono spezzati, così come le vene e le arterie. Garrido si butta a operare, per quaranta minuti, mentre il gruppo dei toreri offre sangue, per una trasfusione. Col telefono si riesce alfine a raggiungere il dottor Gonzàles Duarte, il maggior specialista della zona. Manolete viene trasportato all'ospedale di Linares, mentre il corpo di Islero è già stato squartato, e venduto, carne da macello.
Alle otto di sera, finalmente, il ferito riprenderà coscienza, l' arteria femorale lacerata, e aprirà bocca per lamentarsi del gran dolore. Dopo un'altra trasfusione, si addormenterà, per risvegliarsi nel mezzo della notte e domandare al suo agente: «Mi hanno dato le orecchie?». «Certo. E la coda». Dopo qualche minuto è il matador Rafael Ortega ad entrare, e a sentirsi dire: «Vedi come sono ridotto. Ho la forza di un neonato». Non riesce ad addormentarsi, Manolete. Gli concedono una sigaretta, lo informano che, fuori dalla stanza, attende licenza di entrare la sua amante, Lupe Sino. Dopo un attimo di incertezza, Manolete fa segno di no.
Nel tentativo di lenirne le sofferenze e di dargli un poco di forza, i medici gli praticano una trasfusione di plasma. è scaduto, e concorrerà probabilmente a ucciderlo. Alle cinque e sette minuti dell' alba, il dottor Tamara lascia ricadere il polso che tante volte era stato inesorabile nell'impugnare la spada. «è morto», dichiara.
Dominguin, che mai l' aveva lasciato dall' istante dell' incornata, avrebbe commentato: «Forse Manolete ha giudicato Islero troppo appesantito dalla "faena", e non ha voluto sconfinare nel terreno di lui per spingerlo a caricare. Gli ha però dovuto tagliare la fuga verso la porta della stalla, e, nonostante il gran rischio, non si è per nulla affrettato a finirlo, gli ha immerso la lama un centimetro alla volta, nella parte alta del garrese. Ma non si è certo trattato di una semplice distrazione, la sua unica colpa è stato il coraggio».
Una vita predestinata, quella di Manolete. Manolete Terzo, si sarebbe dovuto chiamare, se i toreri fossero considerati, oltre che nella mente degli aficionados, stirpe regale. Era figlio e nipote di toreri: il prozio, Pepete, era stato anche lui ucciso, vedi destino, da un Miura. Suo padre Manuel Rodriguez era torero. Sua mamma, Angustias Sanchez, aveva avuto non uno ma due mariti matadores: il primo, Lagarttijo Chico, morto giovane di tubercolosi. Unico maschio, conteso da cinque sorelle, Manuel sarebbe nato il 4 luglio 1917 e cresciuto in un sobborgo di Cordova, el barrio de la Mercedes, in cui, ad aver talento, non si poteva sfuggire al destino del "toreo".
Dignitosamente povero, dopo la scomparsa del padre, i suoi primi contatti con i tori sono rappresentati da due teste impagliate appese in sala, Sardinero e Botinero, uccisi dal primo e dal secondo marito di mamma Angustias che, la si può capire, non favorirà certo la scelta del figlio. Intorno ai sei anni, i geni taurini si risvegliano alla vista di un' immagine di corrida, fatale al valenciano Manolo Granero. A scuola, Manuel non partecipa, come tutti, ai giochi di palla, calcio e pelota. Solo in un angolo, disegna, sempre più spesso, tori. Non tarderà a legarsi d' amicizia con un ragazzo più grande, Domingo Roca, che vuole diventare torero. Sinché, la povera scorata Angustias si troverà ad ascoltare la temuta frase: «Quiero ser torero», voglio essere torero.
Una decisione che lo porterà agli inizi di fronte a due corna montate su una mobile tavoletta, poi al primo incontro con una vitellina di una ospitale azienda agricola, e ai primi applausi dei mezzadri, incantati dai gesti eleganti, insoliti in un ragazzino decenne. Saltiamo al 25 luglio del 1935, per ritrovare Manuel novillero a Madrid, sconosciutissimo, tanto che il manifesto lo annunzia come Angel Rodriguez, invece di Manolo. A indignarsene è il suo agente, che è forse meglio definire preveggente, Josè Flores detto Camarà, sicurissimo nell' affermare che Manolete avrebbe dato vita ad una rivoluzione del "toreo". E, senza rischiare analoghe iperboli, i giornali specializzati, da ABC ad Ahora, sottolinearono le sue qualità.
Inizia, nel 1936, la guerra civile, ma per buona fortuna di Manolete la leva che lo destina all' artiglieria, e la collocazione di Cordova nel territorio nazionalista, non ne interrompono l'attività: vietata, invece, nel territorio repubblicano. Mentre, nel 1939, si sta placando la guerra, il 2 luglio l' ormai notissimo novillero riceve "l' alternativa" a Siviglia dalle mani di Rafael Jiménez Chicuelo, in presenza di Gitanillo de Triana Secondo, di fronte al toro Mirador. E ottiene "confirmacion" a Madrid, il 12 ottobre, assistito da Marcial Lalanda, e Juan Belmonte Compoy, due grandi.
Quel che segue è un ininterrotto successo, propiziato anche dalla neutralità di un paese ansioso di risorgere dalle rovine della guerra civile: un paese desideroso di identificarsi con eroi che con la guerra non abbiano a che fare. Diventa un simbolo di una nuova Spagna quel ragazzo alto e sottile, dal viso scarno, il naso lungo come una spada, lo sguardo venato di tristezza. Inventore di uno stile assolutamente nuovo, essenziale: metafisico dirà il mio amico Kléber Haedens. Un atteggiamento non solo sprezzante verso la morte, una gestualità indifferente alle corna che lo sfiorano e, più di una volta, feriscono.
Le annate di Manolete segnano record crescenti, a partire dal 1941, in cui tutti, dagli esperti ai giornali, dal grande pubblico sino alla maggioranza dei suoi rivali, lo definiscono il Numero Uno o, ancor meglio, "El monstruo". Nel 1942 accumula settantadue corride, nonostante un seria ferita a Madrid. Nel '43 le ferite salgono a quattro, ma le corride non scendono sotto le sessanta. Sempre più richiesto, apparirà novantatré volte l' anno successivo, con trasferte su una caotica e sconvolta rete stradale che concorreranno a debilitarlo sino a provocargli insonnia e depressione.
Non estraneo al disagio, l'arrivo dal Messico di un rivale, Manuel Ruiz Vasquez, detto Manolo Arruza, che conquista il primato non solo con centootto corride, ma con uno stile immaginoso e colorito, opposto a quello rigoroso ma anche ripetitivo di Manolete. è la sua volta, di trasferirsi e trionfare in Messico, dove subisce però una nuova incornata. Decide allora di concedersi un anno sabbatico, con una sola apparizione a Madrid, nella Corrida della Beneficenza, in cui terrà a battesimo un nuovo giovanissimo collega, Luis Miguel Dominguin. Riprende faticosamente, Manolete, nel 1947, per essere ferito il 16 luglio a Madrid, ma accettare sprezzante un nuovo impegno a Linares, quello che sarà l' ultimo, di cui ho riferito all' inizio di questo racconto. Per il quale, a me occasionale aficionado, è stato preziosissimo aiuto Gian Paolo Bonomi, uno dei maggiori esperti italiani di corride.
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