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Club Taurino Italiano

Manzanares: bozzetti per un autoritratto

 

12 novembre 2023

 

L’articolo che propongo qui di seguito è traduzione del pezzo “ARTE coño... ARTE!” firmato dalla giornalista Brigitte Dorin e pubblicato nel 1989 sull’effimera rivista del sud-ovest francese “TENDIDO”. Commentava con sensibilità e stile alcune confidenze del Maestro... Iniziava tutto sul Machu Pichu:

 

“ARTE coño... ARTE!”

 

Delirio sul Machu Pichu

Verso la fine del ’88, José Marí torea a Lima, la capitale del Perù, ed incontra il famoso chitarrista spagnolo Paco de Lucía. Prima in sordina, e poi crescendo s’impone ormai al torero un desiderio: mettere in simbiosi le due note artistiche della sua vita. Da tempo venera “El Cante” del suo vecchio compagno di baldoria Camarón de la Isla. Dice di lui: “Cresce il mistero del suo canto quando la vita e l’alcool lasciano tracce nella sua voce”. Una sera, dopo il trionfo, nel febbraio del ’89, una sera di festa, gli occhi scintillanti di champagne e di malizia, circondato da alcuni amici, il Maestro sogna ad alta voce: “Mai vidi tramonto più bello che sul Machu Pichu; vorrei fare un video in quest’antica città Inca. Io sto col toro, lui, Camarón, sta seduto di fronte, pronto a cantare. Mischieremmo le culture, quella inca, quella spagnola, il flauto delle Ande e la chitarra di Paco, la musica dei gitani. Sto tranquillo col toro, in jeans e berretto peruviano. Trasmetto la mia emozione ai musicisti, sicché si accordano e cantano. Del vino, una paella, duende e… Arte! È il massimo”.

“Naturalidad” del toreo – Complessità dell’uomo

Lo si dice volentieri epicureo, festaiolo e quasi canaglia alla ricerca del suo solo godimento. Confessa, chissà con qualche intenzione di provocare: “Dopo una corrida-piacere, ho voglia solo di quattro cose: una buona cena, una buona bottiglia, un sigaro… e una bella donna. Non sono una canaglia, semplicemente uno che ama la vita, tutti i piaceri della vita; mi risulta difficile rinunciarci”. Parallelamente, e apparentemente senza la minima contraddizione, si definisce “indisciplinato pentito”. Il fatto è che lavora sodo per dimenticarsi del suo corpo, coi suoi antitetici desideri, perché diceva Belmonte: “Per toreare bene, devi dimenticarti di avere un corpo”. Perché toreare rimane la grande impresa della sua vita. Le tentazioni sono a portata di mano… Si trattiene. Un innamorato dei piaceri che si impone una vita spartana, un bohémien che si doma con la serenità d’un vecchio maestro indù. Ecco il paradosso dell’artista, la dualità dell’uomo. “Provo a trovare l’armonia tramite gli estremi, non voglio saziare il desiderio né lasciarmi divorare da esso. Il toreo è un esercizio spirituale vicino alle arti marziali orientali; lavoro la velocità della risposta muscolare per stare il più immobile possibile davanti al toro, e la velocità della corsa per toreare lentamente”. Lo si accusa di dilettantismo, ma lui risponde: forza interiore, volontà. Uno non rimane 18 anni “Figura del Toreo” per caso. Inebrianti vertici, fiaschi pesanti: così la carriera di Manzanares! Ne conviene, ma il suo desiderio di toreare, unito ad una volontà feroce, gli hanno sempre permesso di superare le sue crisi intime. La prova: i suoi anni di grazia 88-89.

MANZANARES, il seduttore

36 anni, l’uomo in piena maturità, l’artista incoronato al culmine della sua arte. La raffinatezza di Manzanares, l’eleganza nel ruedo, l’eleganza ovunque. Mai prendersi troppe libertà con José Marí! È una star vecchio stile, naturalmente suscita il rispetto, e lui stesso sa tenere le distanze… per farsi desiderare. Un pizzico di ironia nella sua voce un po' rauca, lo sguardo facilmente acceso dall’interesse, lo si indovina più volentieri malandrino che concentrato sul sanscrito dei testi vedici! E così, piace! Di certo, non attrae il pubblico femminile quanto Victor Mendes… ma fa il suo effetto. È pienamente consapevole della seduzione del torero: “Il torero va assimilato a un interprete di talento, paragonabile ad un’attrice non proprio bella, ma piena di una conturbante sensualità.” Così come Luis Miguel Dominguín, El Cordobés o, più recentemente, Richard Milian, dice: “La donna mi è necessaria per toreare bene!”. Oppure: “Ovviamente, sto attento alle donne eleganti in barrera, e spesso toreo precisamente per una di loro”. Spontaneamente aggiunge: “la donna è un oggetto davvero decorativo” (le femministe ultra sono pregate di mantenere la calma). Ma non gli piace essere inseguito: “Alcune sono “pesadas”; a me, piace essere sedotto da tutta una strategia. Quelle che m’interessano rimangono discrete, eleganti anche nel loro approccio, la seduzione con Arte!”.

 

Il “desplante de Fabrilo”. Alicante, 1984.

 

Da maneggiare con cura!

Lasciamo da parte questo topico sul torero artista: “oggi ha voglia… domani non darà niente!” Oppure, l’usata folla dell’estro capriccioso, dell'entusiasmo creativo a volte fallico, a volte a mezz'asta... La spiegazione di José Marí è molto più semplice: “Sono fatto di cristallo; di me ci si attende sempre il massimo, ma è impossibile. Non sempre mi sono favorevoli le circostanze, anche nei giorni in cui ho tanta voglia di far bene… E se mi sforzo, se faccio finta, il pubblico lo vede subito, perché non sono un impostore, allora, lascio perdere… ma do sempre il meglio nei momenti decisivi”. Sarà l’artista impastato di più dubbi ed incertezze che il suo omologo bestiario? Difficile da dire. Possiamo solo affermare che la carriera di Manzanares, più di quelle di altri, ha seguito i meandri della sua esistenza. Innegabile il legame tra la vita e l’opera, così come le ripercussioni dei suoi drammi personali sulla sua sensibilità. La sua rivalità professionale, ed intima, con Paquirri negli anni 77-78, la malattia della figlia maggiore, lo fanno sprofondare nello smarrimento. Assassinato dalla critica, si rivelerà più grande di quanto pensassero gli stessi ultimi suoi sostenitori. Poco costante, potrebbe fare di più! Dice: “Belli o brutti, conviene assumere tutti gli aspetti dell’esistenza; più si invecchia, più si impara come godere della propria forza interiore: la volontà di raggiungere il livello più alto ci fa apprezzare di più la solitudine. Rimane la propria vita, sola, al centro del ruedo”.

 

 

1983: Manzanares rilancia la sua carriera, trionfando d’un Miura a Valencia.

 

E la paura? La responsabilità nei confronti del pubblico? I pericoli della concorrenza? “La paura mi rende autentico, la rispetto perché mi aiuta a tenere i piedi per terra. Senza la paura, sarei vacuo. Per quanto riguarda la concorrenza, non mi stimola a lungo. Ojeda mi diceva: bisogna sempre prenderti a calci in culo per farti andare avanti… Pure fu per me un ottimo doping. Però non provai mai ad imitarlo. Come tanti, mi ha influenzato; ho adattato alcuni elementi del suo toreo alla mia personalità.

1988 – 1989: gli anni dei grandi “indultos”

Luglio del 88, Ronda. José Marí indulta “Peleón”, un toro di María Luisa Domínguez Pérez de Vargas. Un mostro di bravura. Febbraio del 89, durante un festival a Samadet (Landes), nuovo indulto con massimi trofei simbolici d’un novillo di Sepúlveda, che in quel giorno verrà ribattezzato “Samadeteño”. Storicamente il primo toro spagnolo indultato in Francia. Luglio del 89: seconda edizione della corrida concorso di Ronda, organizzata da Antonio Ordoñez. Per un “María Luisa” chiamato “Piano” (fratello di “Peleón” disgraziatamente morto l’anno precedente - N.d.T), Manzanares chiede un quarto incontro col cavallo. Il toro carica… José Marí chiede l’indulto, e l’ottiene. E così sono tre! Tre tori indultati, e tre faenones. Ma non finisce qui. Il Machu Pichu si sogna… Alicante si vive. Malgrado una recente ferita a Huelva, il Maestro affronta in agosto sei tori nella sua città natale. Solo, però in simbiosi col flamenco. José Marí ed “El Potito”, un gitano di 13 anni uniscono i loro “duendes” per diffondere emozione. Al quinto toro si alza il pubblico. Momento magico. Cinque orecchie, un rabo. Gérard Dupuy, del quotidiano “Libération” rende un omaggio senza pari all’opera del matador: “Quando, per una chicuelina, la mano è così bassa che il tessuto sembra cadere al suolo, si tratta ancora d’una chicuelina, o conviene trovare ormai un altro nome?”

E venne quel giorno a Dax…

“Ha messo il toro al passo!!! Allucinante!!!!”. Si. Una corrida dalla quale molti di noi uscirono senza voce. Alla tertulia della peña “Campo Charro”, eravamo sotto shock. Silenzio euforico. Paralisi del senso critico prima dell’ebbrezza liberatrice. La grande felicità ha il suo tempo. Ne ricordo alcuni, nel callejon, totalmente fuori uso, applaudendo freneticamente invece di premere il clic dei loro Nikon. Manzanares, in quella tarde del 15 agosto 1989, fece saltare tutti i fusibili della plaza di Dax (confermo – N.d.T). Presto seppe il Maestro che da quel suo secondo toro poteva trarre l’epitome dell’Arte di toreare. Un altro “María Luisa” per il virtuoso del “temple” … Controllo totale d’una carica rallentata. Un sogno. La tauromachia, in quel giorno, raggiunse il suo culmine, quello dei piaceri vietati, e ci lasciò con una domanda: come, ormai, soddisfarci? José Marí trionfò a Dax. Cosa prova, lui stesso, dopo un momento del genere? Si sente vuoto-felice, ma disabitato. Eppure dice: “Credo che la sete di toreare ancora, inizi proprio nell’attimo in cui mi accorgo che, si, ho fatto bene le cose”. È dunque incurabile.

 

 

Dax 1989, dopo il “faenón”

 

 

La maturità: si torea come si è!

Toreo unico, personalità unica. Il toreo sempre si spiega alla luce della psiche del torero. Così come i parossismi artistici si spiegano alla luce d’altri eccessi… Ma non importa! “Con Arte, coño”! Non basta essere un torero artista, è d’uopo essere un artista della vita. José Marí è ormai in piena maturità. Si dichiara, compiaciuto, un veterano della tauromachia. Già. Il trio che formava con Niño de la Capea e Paco Ojeda si è spezzato. Nel “patio de cuadrillas” pare che, a volte, stia cercando la presenza di quei due compagni. D'altra parte, ha acquisito una certa capacità di distanziamento rispetto alle esigenze del pubblico. “Oggi faccio quello che ho da fare”, confida a J. C. Arévalo, “mi soddisfo della sicurezza d’una buona brega, così come d’una grande serie di muletazos. Prima toreavo per trionfare, adesso, tramite il toreo, sto cercando d’incontrare me stesso”. Non intende ritirarsi, ma afferma: “Quando mi ritirerò, non tornerò!” Ma poi: “Insomma, non credo… È difficile da dire… Dovesse essere troppo pesante la mancanza…” Dualità dell’artista, niente da vedere con la fanatica mentalità del campione. Certezze effimere presto oscurate da quei dubbi che fanno di quest’uomo sensibile una trappola per sé stesso... E per gli altri. Dolceamara droga della quale non si può fare a meno.

 

Articolo firmato da Brigitte DORIN

Rivista “Tendido”, n° 24, settembre 1989

Traduzione E. de la Cruz, 2023

 

 

POSTLUDIO

E adesso? Nel primo ventennio del nostro secolo, un torero chiamato José Marí Manzanares ha lasciato numerose “tardes” alla storia dell’Arte del Toreo. Di sua mano “Arrojado”, della ganadería di Nuñez del Cuvillo, è stato il primo toro graziato nella Maestranza di Siviglia. Quel torero ha poi aperto due volte la Puerta Grande di Madrid e tante, tante altre. L’avete capito, si tratta di Manzanares figlio. Ebbi il privilegio di assistere a due dei suoi trionfi più importanti. Il primo a Nîmes, il 14 settembre 2013: un “mano a mano” con Julian Lopez “El Juli” e tori di Garcigrande. Manzanares, ispirato, magnanimo, maestro in ogni istante, costruì in quel giorno una vera e propria architettura del toreo, un tempio alla bellezza apollinea dell’Arte di Toreare, dove l’improvvisazione dei sorprendenti passi cambiati, o delle manoletinas, si armonizzava al toreo fondamentale detto con la massima eleganza, e pure con la serena razionalità del lidiador esperto, culminando l’opera con fulminanti stoccate “a recibir”. Quattro orecchie, una coda. L’apoteosi.

 

 

Manzanares figlio, Nîmes 2013.

 

 

Meno di due anni dopo, è vestito di luto che fece il paseillo ad Arles, il 4 aprile 2015. Pochi sarebbero stati capaci di risolvere gli enigmi dell’insolita mobilità del quinto Garcigrande come seppe farlo Manzanares, in quel freddo e grigio pomeriggio. Dopo il faenón, l’indimenticabile immagine d’un “cite a recibir” dalla lunga distanza… e la stoccata, ancora una volta, d’una bellezza letale. Altro rabo, altro trionfo. Quella sera, al “Tambourin”, sulla Piazza del Foro, arrivò un amico ritardatario e disse - mentre il pastis aveva stranamente il gusto di qualche Champagne d’annata: “Manzanares si è fatto condurre sulla riva del Rodano e, una volta giunto, ha camminato sulle onde” …

 

 

Arles 2015, “cite a recibir” 

 

Ora che la tauromachia e l’afición sembrano irrevocabilmente diventati sinonimi di “passatismo”, sia per chi vuole vederle sparire che per gli stessi aficionados, vorrei solo proporvi, come conclusione, un breve viaggio trasversale nel tempo e nello spazio, dal passato al futuro, partendo da tre foto di una singola “suerte”: la “chicuelina”.

 

 

Manolo González “chicuelina” Anni 40

 

 

Manzanares padre “chicuelina”. Anni ‘90, Siviglia.

 

 

Manzanares figlio, “chicuelina”. 2012, Siviglia

 

 

Alla fine degli anni 80 del secolo scorso, Manzanares padre ricevette il segreto dell’interpretazione della “chicuelina” colle mani basse dal grande torero sivigliano degli anni 40, Manolo González (suo apoderado). E dopo, quel segreto lo trasmise a suo figlio. Però, sia dall’uno che dall’altro, mai questa “chicuelina” fu una citazione. Nessuno pensava al passato quando, nel maggio del 89, José Marí Manzanares fece tacere il “tendido 7” di Las Ventas dando quel quite, ormai suo, a un toro di “Los Guateles”. Un pubblico che, in un attimo, passa dalla vociferazione al mutismo, bocche aperte ed occhi spalancati, non pensa proprio alle foto dei vecchi libri di storia (che spesso non sono che libri di storie… ma questa è un’altra “storia”). E quando i giovani di oggi vedono Manzanares figlio - per loro un torero veterano - dare la stessa chicuelina, forse non hanno la minima idea dell’origine di questa versione della “suerte”. E tanto meglio! Significa che si tratta d’un gesto artistico vivo, presente, e non di una scolastica riproduzione. E se mi arrischiassi a spiegare a giovani aficionados attuali ch’io vidi pure, nel 1986, Manzanares padre dare “chicuelinas” colle mani ancora alte, perché a quell’epoca Manolo González non era tuttora diventato il suo apoderado, e dunque ecc. ecc. Ebbene quei giovani se ne andrebbero verso un’altra “caseta” prima ch’io avessi finito il mio pesante racconto - e avrebbero ragione.

 

 

Puerto de Santa María, 2021

 

Adesso, Manzanares ha quarant’anni. “Assassinato dalla critica, si rivelerà più grande di quanto pensassero gli stessi ultimi suoi sostenitori” … Certo, non ci ha ancora detto tutto. Da suo padre ha ricevuto le tecniche del toreo, di cui padroneggia le varie dimensioni. Ma ha anche ereditato il segreto del toreo di “Cante Grande”: essere se stesso. “Si torea come si è”, diceva Juan Belmonte (il quale, secondo Manzanares padre, doveva aprire il cartel dei suoi toreri ideali, seguito proprio da Manolo González, e da Antonio Ordoñez). E se si torea come si è, non si può toreare cercando di essere un altro. È un’idea così semplice, così ovvia, che tanti giovani toreri non la vedono davanti agli occhi loro, e si perdono nell’arte fasulla della contraffazione. Quello che unisce i Manzanares, padre e figlio, è l’essenza. L’origine comune. Cioè: il mare mediterraneo. Il toreo del figlio non è la riproduzione di quello del padre, no. Ma il muletazo di Manzanares figlio è un veliero che, maestoso, percorre lo stesso mare che percorreva la nave del padre. E sulla sabbia del ruedo, come su una spiaggia sognata, dai mondi che non sappiamo raggiungere ci porta i tesori: le spezie odorose, le “chicuelinas”, le sete selvatiche, i “naturales”, i metalli nobili, le stoccate. Siviglia, Madrid, Ronda? O forse Macassar, Balasore, e le isole Molucche…

 

Esteban de la CRUZ

 

 

Manzanares padre e figlio, Dax 1990.

 

 

Manzanares padre e figlio, Alicante 2017.

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