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Club Taurino Italiano

Luis Miguel e la pietra grigia...

20 marzo 2024

 

"Como le he dicho antes, sostengo la teoría de que lo profesional indudablemente es lo que hace lograr que surja el momento de la inspiración, pero ya de por sí es un arte. Es verdad que para entenderme a mi hay que saber có-mo es el toro. Entender lo bonito que se hace es fácil para todo el mundo. Puedo cortar un toro aquí, puedo alrgarlo, o bien le hago bandearse para buscarle su flexibilidad. Para entender eso, hay que conocer el toro, y es más difícil."

Luis Miguel Dominguin in F. Zumbiehl, El tore-ro y su sombra, Espasa-Calpe, Madrid 1987

 

 

Non sono aficionado di molte corride. Intendo di corride ‘vere’, viste nella plaza. Pur vedendo le altre decine di festejos, tra dirette e non, sullo schermo, gli impegni della vita attuale mi permettono un paio di spostamenti annui a Siviglia o Madrid, principalmente, per farmi accarezzare ogni volta da quel brivido e da quelle emozioni date da poche cose, in fondo: un asiento scomodo nel retro di ‘Casa Morales’, con un vino de naranja e un paio di croquetas per con-templare, sospirando, il tempo che si è fermato nella Calle Garcia de Vinuesa; il rumore del primo toro che esce dal toril della Maestranza, dopo le mie miradas a qualche aficionado, nel quale voglio di indovinare un aire tra l’aristocratico ed il ‘campero’, dovuto ad uno sguardo immerso tra le rughe e una bella teba in lino verde; tutto ciò nella speranza di non tornare in Italia senza aver visto una faena soddisfacente, prima che si facciano vive le immancabili golondrinas nel ‘coso del Baratillo’.

Di situazioni molte diverse si alimenta l’anima in Madrid: l’atmosfera si impadronisce dell’aficionado in maniera meno prepotente, lasciando un po’ di spazio anche al cervello, che a Siviglia troppo spesso smette di ragionare, ipnotizzato dall’accento aspirato della gente e dal colore giallo dei muri, rubato all’albéro dell’arena. A Madrid respiro meglio, anche se a Siviglia devo inesorabilmente tornare. Nella capitale, in piena Castiglia, l’ambiente si sprovincializza, i sivigliani che pur vi ‘acudono’ per San Isidro sono costretti ad accantonare lo snobismo hispalense, anche se la considerazione di Max David per cui ‘la corrida è cosa di Andalusia’ trova conferma nei dialoghi tra aficionados, dove massimo rispetto viene portato ai sempre numerosi toreros - matadores o de brega - e ganaderos ‘del sur’ che la fanno da padrone nel mundillo.

L’aficionado scende in un hotel preso per comodità vicino a Las Ventas e, il giorno della corrida, dopo un’occhiata ai tesori della libreria Rodriguez, attraversa il patio de caballos e sale le scale per poter ammirare dall’alto quel disegno unico formato dal morrillo dei tori da cui paiono fare capolino i corni destro e sinistro, immagine che solo l’aficionado ha stampato nella mente e dal quale sempre è affascinato. A Madrid si può andare all’apartado e vedere preventivamente gli animali: onestamente non serve a molto, sarà il torero a dover dare del proprio meglio, indipen-dentemente dalle hechuras e caras, più o meno bonitas; serve però a rinsaldare il legame tra toro e torero, a ricordare i due elementi su cui si basa la fiesta nacional, l’uomo e l’animale.

Si recita qui, tra i campanacci dei cabestros: ‘…corresponde su lida e muerte al matador Fulanito’. E mentre respiri a fondo, pensando quanto sei fortunato a stare lì, a due passi dal mayoral di Juan Pedro, incroci sguardi e idiomi di altre parti del mondo; in quel luogo senti veramente di trovarti nella capitale mondiale del toreo. Più tardi rimpiangerai un poco la Giralda e il Guadalquivir: ti daranno fastidio il rumore eccessivo nella plaza, il vicino di posto che rovescerà sui tuoi mocassini il suo superalcolico, le proteste immotivate di un settore, l’assenza di musica nella faena che avrai la fortuna di premiare; ti sentirai soddisfatto tuttavia perché, se la faena decollerà, lo farà dandoti l’impressione che la muleta trascini magicamente come un lazzo un animale generalmente voluminoso e imponente, facendoti apprezzare anche lo tecnica e l’arte di toreri poderosi, che in plazas minori ti darebbero l’impressione di toreare con troppo poco sforzo ed entrega.

Elaboro di solito queste sensazioni sulla via del ritorno, e tornato in Italia, man mano che passano glia anni, si accavallano i pensieri di sempre, con buona pace delle altre plazas, non coinvolte in questo confronto: ‘ho proprio voglia di tornare a Siviglia’ (di ritorno da Madrid), oppure... ‘però Madrid è sempre Madrid’ (di ritorno da Siviglia). Si tratta del solito dualismo, di quelle dicotomie un po’ preconcette di cui si alimenta l’aficionado, avvezzo ad un mondo in cui i cosiddetti ‘topicos’ si contano a bizzeffe: toreo de arte o toreo de poder; ganaderias duras o ganaderias comerciales; torero di corte belmontista o gallista; questo torero carga la suerte o torea despegadito..? Ritengo sia normale che ciò accada: allontanandosi con la mente dalla realtà dei fatti, dall’emozione procurata dal torero e dal toro nella plaza, c’è bisogno di comunicarla agli amici e a se stessi, c’è bisogno di prendere posizione rispetto al giudizio dato da un critico, verso il quale spesso ci si pone in maniera inconfessata prevenuti o accondiscendenti. Incalza la tertulia più o meno virtuale con gli altri aficionados, ai quali tu, indulgente con i toreri di arte, fatichi ad ammettere l’ammirazione per la gran tarde di un torero tecnico, e viceversa. Esiste sempre il balsamo della storia della tauromaquia, per chi ha voglia e tempo da buttare dandosi arie da teorico della materia, ma anche in questo caso, dietro l’angolo, vi è l’acritico accoglimento del parere di un periodista o di un aficionado che avrebbe sovvertito lo sviluppo della storia del toreo acriticamente accettato da tutti. Non se ne esce.

Una sorta di cortocircuito, se così si può definire, una specie di rimescolamento salutare delle carte mi è capitato l’anno scorso. Il tempo libero e gli impegni non lo avrebbero permesso, tuttavia decisi di lasciarmi trascinare dalla curiosità con cui lessi l’annuncio di un ‘curso de toreo practico’, pubblicizzato dal club omonimo, diretto dal matador de toros Eduardo Davila Miura. Ero già stato a Siviglia nelle migliori tardes di preferia, avendo avuto la suerte di incappare nella gran faena di Daniel Luque, e non prevedevo, almeno fino a settembre, di tornare in Spagna. Ma, pur con tutto il buon senso che una vita borghese e non torera mi hanno somministrato, non riuscivo a sottrarmi al pensiero di ‘pormi delante’ a un animale bravo, per quanto giovane e poco smaliziato potesse essere.

Così partii: il programma era a dir poco invitante, con tanto di entrenamiento e lezioni di toreo de salon nel ruedo de Las Ventas e presso la placita della Escuela de Tauromaquia de Madrid, partecipazione in gruppo alla Corrida de la Beneficiencia (in presenza si Sua Maestà El Rey) e tentadero finale presso la ganaderia dei fratelli Entero, di linea ‘Osborne-Cuvillo’, all’Escorial. Programma come detto invitante e totalmente madrileno.

E Madrid, in effetti, mi si presentò in tutta la sua maestà e fu soprattutto portatrice di verità: Davila Miura ed il sabio subalterno Emilio Rivero mi affidarono prima un capote, facendomi toccare con mano quanto sia pesante e quan-to allenamento di polso sia necessario per potersi allenare con esso senza danni. E poi la lotta per conseguire la lentitud ed il temple da imprimere ai movimenti di fronte al carril, il toro finto dotato di ruote che con pazienza i nostri maestri conducevano imitando la embestida del toro.

Direi che naturalmente, immaginando in quei momenti la presenza di un toro vero proprio nel ruedo de las Ventas, dove mi trovavo, capii due cose: l’importanza per un torero di conoscere i movimenti e le querencias dell’animale e la necessità, con il capote, di ‘ganarle terreno’, vale a dire, con ogni passo dato por el derecho e por el izquierdo, portarlo da las tablas a la boca del riego, nel centro della plaza. Per fare ciò è necessario andare sempre in vanti, PA’ LANTE, l’espressione che mi sono sentito dire più volte in quei giorni: Andrea… pa’ lante, pa’ lante, no asì…!! Si, perché il toreo, un po’ come il golf, prevede movimenti contro-istintuali, da attuare davanti a un animale aggressivo, di fronte al quale, istintivamente, si vorrebbe indietreggiare. Bisogna invece mantenere calma e ‘andarle al toro’, sorprendendolo sempre por el piton contrario. Mi trovavo, insomma, a mettere in pratica con utensili e capacità improprie, i movimenti basilari dello stare nella plaza, esemplificati più che da altri da Domingo Ortega, nel quale tale concetto si manifestava con evidenza perché toreava poco en redondo.

 

 

Gli aficionados practicos nel ruedo de Las Ventas

 

Passammo poi alla muleta, l’unico drappo con il quale due giorni dopo ci saremmo cimentati con las becerras: è molto difficile infatti toreare con il capote, in quanto è grande, si fa fatica a proporlo ad una distanza corretta al toro che avanza e si ha minor controllo. La muleta, grazie al palillo, pare un prolungamento del proprio braccio e, seppur pesan-te, dà l’impressione di maggior controllo. Eravamo agli inizi, e quindi Davila Miura e Rivero ci fecero toreare come Belmonte, e comunque come si toreava prima di Chicuelo e Manolete, cioè en ocho e por alto. Por el derecho, quindi con la espada de  ayuda, che allunga la superficie della muleta, prima dando il derechazo e, una volta lambito con essa il fianco destro del toro finto o del companero accucciato con le corna in mano, andare di nuovo pa’ lante e presentargli il dorso della muleta per il depecho. Con la izquierda, senza spada, vissi una sensazione di maggiore naturalidad e libertà, compensata però dalla maggiore vicinanza del collaboratore (leggi toro) e dal fatto che la sinistra, per chi è destrorso, risulta di uso più impacciato.

Provo invidia per me stesso se penso che vi fu una sera nel giugno dell’anno passato in cui, dopo avere toreato de salon per la prima volta sulla sabbia de Las Ventas, guardando spesso nei momenti di riposo il palco reale, e dopo una doccia ristoratrice, mi incamminai per la Calle Barbieri, in cerca del mitico ristorante ‘Casa Salvador’, di cui avevo sentito parlare ma dove non ero mai stato. Con fatica trattengo l’emozione mentre scrivo, raccontando che seduto in mezzo alla miriade di fotografie d’epoca e di quadri di tema taurino, gustai un bacalao superlativo, ripensando a quanto avevo vissuto sul terreno della plaza de toros più importante del mondo; pensieri in cui potevano tenersi per mano in maniera sorprendente ma logica le difficoltà di un aficionado practico in erba con quanto letto sulla storia del toreo, i cui protagonisti venivano collocati immediatamente nella mia testa in base alla loro impostazione, in relazione alle difficoltà fondamentali sperimentate nella mia giornata. Il tutto sotto i volti inquisitori di Belmonte, di Pepe Luis e di Luis Miguel, che dai loro ritratti sulle pareti del locale, talvolta autografati, sembravano mettere alla prova la fondatezza delle mie imperfette intuizioni. Prima di pagare il conto volli approfittare della gentilezza della proprietaria: non ero sicuro di poter esprimerle il perché ammirassi, unico torero tecnico in mezzo ai miei favoriti artisti, il suo conterraneo Luis Miguel Dominguin, ma sapevo di poterle chiedere, se mai l’anecdota fosse stata vera, quale fosse il tavolo o comunque l’angolo del locale in cui, si vocifera, soleva cenare in compagnia della splendida Ava Gardner, nei suoi primi anni di trionfo. La gentilissima padrone di casa, evidentemente avvezza alle molestie di aficionados in cerca di conferme, mi osservò per un attimo e con sicurezza mi accompagnò in una delle sale del piano terra, indicandomi con sicurezza un tavolo, in quel momento vuoto, in una posizione non certo privilegiata ma al riparo dai rumori. Lo scrutai attentamente per qualche secondo, notando sulla parete una fotografia a colori di José Mari Manzanares figlio che cena nel locale e, poco distante, una carta incorniciata, datata 26 settembre 1948, riportante: ‘Afectuosamente. Luis Miguel’.

 

 

Testimonianze in Casa Salvador, nella Calle Barbieri

 

Madrid in quelle ore, con i suoi toreri presenti e passati di corte più o meno antitetico rispetto ai miei predilet-ti sivigliani, mi insegnò molto. Domingo Ortega, Luis Miguel, Antonete, Angel Teruel e Uceda Leal, solo per citarne alcuni e tralasciandone di grandiosi, si associarono a quanto andavo scoprendo in quelle giornate. Il secondo giorno scoprii il Madrid della ‘Casa de Campo’, da sempre rifugio prediletto dei maletillas che lì sempre si incontrarono per entrenar. Qui si trovano anche le installazioni frugali della ‘Escuela de Tauromaquia de Madrid’, dove cercammo di rinforzare le nostre poche nozioni sulla lidia, per poter affrontare, il giorno seguente, il tentadero vero e proprio. Alla escuela incontrammo anche il torero Sanchez Vara, che ci manifestò la sua aficion autentica e potemmo provare, con lui e Davila Miura, la suerte de matar, il carreton: difficile, quasi impossibile per chi si trova agli inizi.

Desolante fu invece scoprire le reali condizioni in cui versa, trovandosi nelle stesse vicinanze della escuela, la ‘Venta del Batan’, luogo dove alcuni aficionados madrileni presenti ricordavano con nostalgia di essere stati accompagnati da piccoli per una bibita o addirittura per un pranzo; in quell’ormai scomparso Madrid, infatti, per dare un’idea della presenza assodata e ‘integrata’ della tauromaquia, funzionava un ristorante nel quale i madrileni potevano pranzare in uno dei polmoni verdi della città, con vista sui tori presenti nei corrales.

Visto il trionfo di Fernando Adrian e la maestria di Castella, dopo una cena consumata alla ‘Cerveceria Alemana’ e un buon sonno, mi ritrovai il mattino seguente nell’auto di un compagno di corso, in direzione dell’Escorial. Ero stato in precedenza più di una volta in un’auto in Andalusia per raggiungere una ganaderia, ma questa volta non vi erano analogie nel paesaggio, pure bellissimo: all’uscita dalla capitale, superati gli edifici della zona universitaria, la campagna si presentò molto più verde rispetto a quella andalusa, cui sono maggiormente abituato; inoltre, entrando sempre più in ‘zona ganadera’ vidi che la pietra a secco e non, utilizzata quindi sia per dividere i vari fondi agricoli sia come elemento costruttivo per recinzioni e case, è grigia, di un bel grigio che si mescola con il verde rigoglioso di questa parte del campo castigliano. Si trattava di un paesaggio molto diverso da quello che avevo visto viaggiando da Siviglia verso la ‘sierra norte’, verso il Castillo de las Guardas o anche in direzione Jerez: qui il colore predominante è il giallo, della paglia e dei muri quasi ocra, e il verde presente è quello delle encinas miste alle palme, alle sughere ed agli eucalipti.

Pensai che non lontano dai luoghi dove mi trovavo hanno sede hierros importanti, come ‘Victoriano del Rio’, ‘Balthasar Iban’, ‘Conde de Mayalde’, ‘Flor de Jara’ e anche che da Galapagar iniziò la propria avventura ganadera Don Victorino Martin padre; davo così un ‘volto’, anche se approssimativo, ai luoghi che hanno visto esordire ed affermarsi tutta una serie di ganaderos e, di conseguenza, di toreri nella zona. Mi tornavano alla mente quei racconti di Hemingway, che all’inizio del suo ‘Verano sangriento’ racconta di come Luis Miguel, si ‘encerrasse’ da mattina a sera per lunghi periodi all’Escorial per ‘allenarsi con le vacche’ con costanza ed impegno proverbiali.

Nel frattempo montava un leggero ‘miedo’, soprattutto una volta giunti alla cancellata dell’allevamento di tori prescelto per la clase pratica, cancello il cui cartello inesorabilmente recitava: ‘peligro, reses bravas’. Toccava a me: dopo le chiacchierate di rito tra amici e le raccomandazioni di Emilio Rivero, il ganadero Martin Entero, un uomo di campo educato, senza fronzoli e con una conoscenza dei propri animali straordinaria, ci raccontò che la sua ganaderia, com-posta soprattutto da animali di capa colorada, ebbe origine in quella di ‘Osborne’, con introduzioni successive di sangue ‘Cuvillo’, che pure nacque dal medesimo tronco. A fine giornata lo stesso ganadero mi confidò di avere ‘apostado’ per questo sangue in quanto disse di avere visto in Valdemorillo quello che egli considera il toro più ‘bravo’ mai visto nella sua vita: questo toro, che fu lidiado da Fernando Robleno, fu un numero 66 - Lampistero, della ganaderia di ‘Osborne’, appunto.

 

 

La pietra grigia

 

Dietro un burladero, tra il legno de las tablas ed il muro circola della placita de tienta, totalmente in linea con quanto suggeritomi dal paesaggio circostante, in pietra grigia, attesi con trepidazione e sempre meno paura il mio turno, rendendomi conto di due fattori chiave: che le poche nozioni che avevamo acquisito erano assolutamente valide e che gli animali che mi sarei trovato di fronte, seppur molto vitali, erano frutto di una selezione genetica incredibile, attuata dal ganadero ed anche dagli allevatori precedenti da cui attinse, per cui, salvo errori molto grossolani, le becerras rispondevano e reagivano con precisione ai movimenti che si proponevano loro. Fui fortunato: dopo avere posto nel caballo de picar la ‘nostra’ becerra, che credo di avere toreato come terzo ed ultimo ‘lidiador’, dopo che due compane-ros più esperti di me l’avevano ‘passata’, Emilio mi annunciò che avrei potuto torearla per entrambi i pitones, perché era buena sia nel lato destro che in quello sinistro. Mi avvicinai quindi alla mia vaquilla e le proposi la muleta con la ma-no destra, avvertendo chiaramente nel silenzio il suo forte respiro e notando come il suo sguardo si fissava sempre più nella mia muleta. La toreai por alto, come indicatomi, ‘andandole’, e offrendogli per due volte derechazo e depecho. Qualche applauso, a metà tra il convinto ed il benevolo, mi incoraggiò a continuare. Provai a toreare in redondo, anzi-ché andando alla becerra, spostando la gamba dopo il primo derechazo per ligar il successivo, e poi il depecho, che non riuscì limpido, perché la becerra perse la mano. In quel momento, comunque, mi sentii al settimo cielo.

 

Mi prima becerra

 

Ci fu soltanto una sensazione tanto chiara quanto strana, che avvertivo toreando ed anche osservando il lavoro dei miei amici: cerchiamo tutti, in base alla nostra capacità, impegno ed esperienza, di utilizzare la tecnica migliore pos-sibile ma lo stile che ‘sale’, che emerge dalla faena, perfetta o no, di ognuno di noi si manifesta ‘malgrado’ la nostra vo-lontà. Voglio dire che mentre si torea emergono le nostre rigidità ed i nostri entusiasmi, anche direi inconsci, la nostra convinzione e la nostra ispirazione:  vedi come hai toreato soltanto rivedendoti in un video e l’immagine che ne emerge non è peggiore né migliore rispetto a come avresti pensato, ma certamente diversa. Toreando capisci quanto sia reale l’animale che hai di fronte, e quanto eroico sia lo sforzo di ogni torero. Ho pensato quanto valor serve per resistere ad una embestida lenta di un toro definito da molti ‘commerciale’, che passandoti di fianco ha tempo di adocchiare ogni cucitura del tuo traje de luces. Quanti topicos abbiamo nella testa: quanti toreri che si sentivano ‘de arte’ sono finiti per essere conosciuti da noi aficionados come ‘de valor’ oppure ‘de poder’ perché in un certo ambito hanno trovato uno sbocco, oppure perché, loro malgrado, ciò che si manifesta quando toreano è un corte che li incasella in una certa linea. Trovo sia certamente vera la frase che spesso abbiamo sentito: si torea come si è. Con quale grado di consapevolezza, però, non saprei dire.  

In maniera poco torera mi sono eccessivamente emozionato al momento della consegna del diploma di ‘aficionado practico’, che conservo con almeno altrettanta gelosia della mia laurea e, una volta salutati gli amici che mi hanno accompagnato in questa avventura, mi sono trovato solo, in giro per il centro di Madrid del centro dove, non sapevo, di domenica sera osservano chiusura tutti i principali locali di mia conoscenza, dove avrei voluto consumare la mia ultima cena prima della partenza la mattina seguente. Alla fine mi risolsi per ‘accettare’ il solito ‘Jarritus’, vicino alla plaza de toros, nella cui spianata mi attardai, nonostante la stanchezza, su una delle panchine, pensando a quanto avevo vissuto, alla miriade di pensieri da riordinare e… rimirando la statua di Luis Miguel Domiguin, torero ‘anomalo’, anche per me. E proprio per questo unico. Torero, eppure poco amante del mundillo. Simbolo, per lungo tempo, della Spagna di Franco, eppure fu probabilmente, il più ‘internazionale’ dei toreri. Certamente, come detto e scritto più volte da Andrés Amoros, di una intelligenza fuori dal comune e proprio per questo, credo, desideroso di conoscere anche ciò che stava al di fuori del talvolta asfittico mondo del toro. Eppure quanto taurino fu Luis Miguel … con le sue centinaia di corride rag-giunte in più di una annata dopo la morte di Manolete, di cui fu privilegiato testimone, suo malgrado. Quanto amor pro-prio..!

L’esperienza che avevo appena vissuto mi faceva comprendere che spesso non apprezziamo appieno un torero per le considerazioni date per vere, ed accettate, che abbiamo letto o sentito; quella sera, tuttavia, era il momento più propizio per riuscire a pensare in maniera indipendente e, in mezzo alle mie preferenze sivigliane per toreri di altro concepto, si stagliò Luis Miguel in tutta la sua grandezza. Credo che la stessa pietra grigia della plaza de tienta dove toreai la mia prima becerra aiutò questo approfondimento: in quel luogo, prima che i fratelli Entero selezionassero i propri tori di origine Osborne, José Encinas tentò i suoi Vega-Villar e successivamente quelle pietre videro le scorribande di tori e vacche di Hernandez Pla. L’esperienza del toreare con le sue difficoltà mi fa pensare spesso alla definizione di Luis Miguel Dominguin come di un torero tecnico, con una conoscenza del toro scientifica, uno dei pochi nella storia, come racconta Amoros, capace di carpire le caratteristiche del toro che esce dal toril in pochi istanti, raramente sbagliando. Quando si torea si capisce immediatamente il perché di tanti elogi tributati a Guerrita, a Joselito, a Domingo Ortega e a Enrique Ponce, per citare alcuni toreri di grande capacità tecnica, ma non sempre capaci di emozionare. Talvol-ta la loro estrema ‘facilità’ aburre, richiedendo un toro di qualche complicazione per poterci emozionare, nella con-templazione della loro capacità di dare le corrette risposte alle domande che il toro va via via ponendo durante la lidia. Luis Miguel, così come le altre figuras della storia citate, toreò ogni tipo di encaste e ganaderia, mostrando preferenza per Samuel Flores, Atanasio Fernandez e Palha: anche le preferenze personali la dicono lunga.

 

 

Con Domingo Ortega

 

Alla luce di tutto ciò, vorrei provare a definire in qualche riga, alla luce dei video che ci sono giunti e delle pagine scritte da Gregorio Corrochano, da Carlos Abella e da Andrés Amoros,  che torero fu Luis Miguel Dominguin, ‘Miguel’ per chi mantenesse una relazione di amicizia con il torero. Figlio e fratello di toreri, toreò con grande successo fin da bambino. Si pensi quale concezione della lidia potrà mai sviluppare un ragazzino che a quattordici anni viene presentato a Guerrita, che lo vede toreare e ne apprezza l’uso della mano sinistra; si ritrova un padre, che ricevette l’alternativa da Joselito El Gallo e che di quest’ultimo metteva al figlio un’immagine sul tavolo dell’hotel, prima di toreare, sostituendogli di soppiatto quella di una Virgen che sempre Luis Miguel portava con sé. Ricevette l’alternativa da Domingo Ortega, che veniva apoderado al tempo da suo padre, il quale pure gli permise di apprezzare un altro torero della casa, molto amato da Miguel, che fu Cagancho. Torero tecnico e minuzioso osservatore del toro che si trovava di fronte, sempre ne osservò gli atteggiamenti e le posture , i terreni e le querencias, toreando con un corte certamente castigliano, in cui tuttavia, direi, si fondevano l’arte di dominare il toro di Domingo Ortega con il toreo en redondo e ligado di Manolete: fonde il dominio del toro, ‘andandole’ inizialmente al piton contrario, come Ortega, per poi passare a toreare en redondo, spesso con grande lentitud, come Manolete. Riceve molto spesso con larga cambiadas i suoi tori, li torea con il capote in maniera imponente e statuaria ma poco estetica; al quite molto spesso si passa il capote alla spal-la per dare gaoneras in cui il toro non viene fatto semplicemente passare ma viene toreato conducendone la embestida: mi emoziona molto la sua maniera di eseguire questa suerte. Banderilla tutti i suoi tori, in maniera classica e al quiebro, tenendo questa abitudine fino ai suoi ultimi giorni en activo, nei quali sfida Paquirri proprio in un tercio de banderillas memorabile, a Siviglia. Con la muleta inizia generalmente con una mano appoggiata a las tablas o seduto nell’estribo, per poi salir con il toro fino al centro del ruedo, dando passi camminando, anche al toro più complicato. Lo torea poi en redondo in maniera molto simile a mio avviso a quella di Manolete, torero che amò molto, anche umanamente, nonostante la competizione tra i due, e del quale disse che fu un grandissimo torero per personalità, invincibile, ma con una consapevolezza tecnica limitata, da questo punto di vista più ‘belmontista’.

 

Luis Miguel al quite di un toro a puerta cerrada

 

Fu commentato su tutti i giornali dell’epoca un suo pase circular lentissimo, dato con la mano destra il 17 mag-gio del 1949 a Madrid, ripetuto subito dopo con la sinistra, a un toro di Galache, passo che fece impazzire il pubblico, e che lo divise quando Luis Miguel alzò il dito autoproclamandosi il numero uno. Nella sua ultima reaparicion nel 1971 i video ci mostrano un toreo ancora più sereno e sabio, chissà, però senza la volontà di competizione degli inizi. Veste in questa epoca, definita dal suo fedele e raffinato piccolo seguace, Marcelino, ‘della pantera rosa’, dei trajes de luces molto leggeri, con poche decorazioni, cuciti da Fermin e disegnati da Picasso, suo grande amico. In questo periodo, si pensi, alterna anche con Curro Romero.

Fu rivale di Manolete, amico di Antonio Benvenida, al quale lo accomunava, seppur nello stile diverso, la sa-piente analisi del toro e della lidia. Negli anni, tra gli altri, dà l’alternativa a José Mari Manzanares, per il quale rimarrà sempre un riferimento. I toreri posteriori che lo frequentarono e ottennero sempre consigli preziosi furono Palomo Linares, Angel Teruel, el Soro ed Espartaco: quest’ultimo considera un onore aver ricevuto in regalo ed utilizzato l’ultima spada di Luis Miguel. Enrique Ponce lo ammirò e lo frequentò, e Roberto Dominguez  sempre lo vide come un esempio cui rifarsi; chissà se ciò ha una responsabilità nel tentativo di Andrés Roca-Rey di rifarsi alla sua personalità.

                Dopo tanta Castiglia, in questo punto finale dell’inverno, aspetto con ansia di vedere le Fallas di Valencia e, magari, di tornare a Siviglia per San Miguel. D’altra parte noi aficionados funzioniamo sempre alla stessa stregua. Credo, però, che senza quella becerra e l’austera pietra grigia nella placita all’Escorial, non avrei compreso Luis Miguel.    

 

Andrés Buenavista

 

  

Con Paquirri. Siviglia, 1973

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